Isis, Parigi e Terrorismo: un invito a riflettere

Il 13 Novembre 2015 Parigi ha subito degli attacchi terroristici rivendicati dallo Stato Islamico, Isis, Daesh. La vicinanza geografica, culturale e sentimentale alla capitale francese ha lasciato noi tutti particolarmente colpiti. 

L’attuale facilità della diffusione dell’informazione ha permesso nei giorni che hanno seguito la strage un’esosità di articoli tale per cui si è andato perdendo la qualità di questi. Una lettura superficiale delle notizie porta solo a un confusionaria cronaca, la necessità di leggere con spirito critico e di riflettere sui fatti avvenuti è per noi invece una priorità. Per questo proponiamo di seguito dei frammenti di articoli, di approfondimenti sul tema che riteniamo possano stimolare la riflessione. I testi che seguono sono volutamente provocatori, ma hanno anche la pretesa di essere imparziali. Un particolare invito a pensare è l’ultimo testo, frammento di una lettera scritta nel 2001 a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle.

La violenza che vorremmo attribuire alla religione è in realtà la nostra violenza, e dobbiamo affrontarla direttamente. Trasformare le religioni in capri espiatori della nostra violenza può, alla fine avere solo l’effetto opposto.

(René Girard)

 

Being from the banlieuesis a serious impediment to employability, and nearly every resident I met had a story about discrimination. Fanta Ba, the daughter of Senegalese immigrants, has taken to sending out job applications using her middle name, France, and Frenchifying her last name to Bas, but she remains out of work. Whenever she hears of a terrorist attack in France, she prays, “Don’t let it be an Arab, a black, a Muslim.” On January 7th, she turned off the TV and avoided Facebook for two days. She couldn’t bear to rewatch the violent images or hear that all Muslims bore some responsibility. “To have to say, ‘I am Charlie’ or ‘I am a Muslim and I condemn this’—it’s too much,” she said. “It wasn’t me. I asked myself, ‘How will this end? Are they going to put crosses on the apartment doors of Muslims or Arabs?’

(George Packer)

 

Neither are Judaism, Christianity, or Islam responsible for the Middle East conflict. Palestinians and Israelis invoke religious symbols and references in their rationalization of the dispute, in a space laden with sacred meanings for both sides. But the truth is that this is not a conflict over a mosque, church, or temple, though it has come to be symbolized by such monuments. Primarily, and above all, it is over land, dispossession, settlement, occupation and will to liberation. The relationship is more between occupier and occupied than between Jew and Muslim/Christian. More than the Quran or the Old Testament, it is the Balfour Declaration and the great powers’ strategies in the region that have spawned and dictated the course of this long and painful drama.

(Soumaya Ghannoushi)

 

È vero che “come il cristianesimo l’Islam riabilita la vittima innocente, ma – a differenza di quest’ultimo – lo fa in maniera guerresca. La croce è il contrario: è la fine dei miti violenti ed arcaici” (René Girard); tuttavia non si dimentichi che sull’altro campo i martiri sono “semenza del cristianesimo”; e che, dinanzi all’impossibilità di capire un diverso e millenario rapporto con la morte, resta il punto: “Per quasi trent’anni l’Occidente ha violentato terre altrimenti pacifiche, sterminando innocenti, donne incinte, depredando materie prime, risorse e lasciando bambini abbandonati crescere nella solitudine, nella disperazione e nel desiderio di vendetta. Quando sei un orfano iracheno che a nove anni ha raccolto dal muro di casa il cervello di sua madre a causa della democrazia occidentale sganciata dagli F-16, lo Stato Islamico non ti fa orrore: ti riempie il cuore della speranza di una giustizia troppo a lungo negata.

(Silvia Layla Olivetti)

 

I Peshmerga curdi, che da mesi e mesi combattono l’Isis, sono a maggioranza islamica. I siriani filo Assad e gli Sciiti iracheni che hanno dichiarato guerra all’ISIS sono a maggioranza islamica. Sin dalla sua nascita, l’ISIS ha ucciso per lo più altri arabi: sciiti, atei, gay, minoranze religiose. Persino altri sunniti contrari alle loro pratiche. Al mondo, sono più gli islamici che i cristiani-occidentali a combattere, proprio in questo momento, l’ISIS.

(Edoardo Polito)

 

What moral theory justifies using wire, wall, and weapon to prevent people from moving to opportunity? What moral theory justifies using tools of exclusion to prevent people from exercising their right to vote with their feet?

No standard moral framework, be it utilitarian, libertarian, egalitarian, Rawlsian, Christian, or any other well-developed perspective, regards people from foreign lands as less entitled to exercise their rights—or as inherently possessing less moral worth—than people lucky to have been born in the right place at the right time. Nationalism, of course, discounts the rights, interests, and moral value of “the Other, but this disposition is inconsistent with our fundamental moral teachings and beliefs.

(Alex Tabarrok)

 

Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti prima dell’ 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’ altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.

(Tiziano Terzani)

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